Roy Parsifal e il mistero dell’orso

Spietato indagatore di ogni piega del rapporto tra genitori e figli, il maestro dell’antiporno Roy Parsifal ci sorprende ancora una volta con questo strepitoso Perché, papà. La messinscena è astratta come nel teatro kabuki, tant’è vero che per interpretare padre e figlia Parsifal sceglie due attori più o meno coetanei. Ma in questa storia di ordinaria sopraffazione, di violenze domestiche, di coiti consumati nella luce livida di una cucina appare geniale la scelta della protagonista femminile, caratterizzata da una pinguedine ferreriana, il cui corpo inerte e flaccido ci ricorda che, nella poetica parsifaliana, eros e thanathos rappresentano un binomio inscindibile; la voce strascicata e bamboleggiante dell’eroina riporta invece a certe sperimentazioni di Carmelo Bene. La presenza dell’orsetto di pezza, simbolica, ambigua e straniante, è destinata ad accendere numerosi dibattiti tra i fan del regista: accantonata l’ipotesi di Guido Aristarco, secondo la quale l’orso evocherebbe la nostalgia dell’Unione Sovietica e del socialismo reale, più valida sembra l’interpretazione biblica (il peluche rappresenterebbe lo strumento di vendetta spedito da Geova al Profeta Eliseo, con tutte le implicazioni connesse alla crudeltà del Dio Padre). E nel pianto finale della fanciulla l’autore racchiude tutto il dramma dell’impotenza umana nei confronti della crudeltà cosmica.

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